
ACCADDE OGGI – 15/03/2019
15 Marzo 201915/03/1673 – Muore a Roma il pittore, incisore e poeta Salvator Rosa.
Salvator Rosa nasce a Napoli, secondo le fonti più accreditate intorno al 20 giugno del 1615. È stato un artista a trecentosessanta gradi, barocco, soprattutto pittore e incisore, oltre che apprezzato poeta e versato teatrante. A parte Napoli, la sua città, si è fatto conoscere anche a Firenze e a Roma. Suo padre è l’avvocato Vito Antonio de Rosa, noto nell’ambiente napoletano. La famiglia abita all’Arenella, all’epoca zona fuori dalle mura della città partenopea. I voleri paterni, sin da quando il futuro pittore è appena un bambino, sono orientati verso l’avvocatura o, in alternativa, verso una carriera ecclesiastica. Nel 1621 il piccolo Salvator Rosa perde il padre, che muore; la madre, Giulia Greca, lo abbandona insieme con i suoi fratelli, Giuseppe e Giovanna, alle cure del nonno Vito. Il passo successivo vede Salvator e suo fratello iscritti al convento dei Padri Scolopi, anche se in alcune fonti successive alla vita del pittore, tale collegio viene indicato appartenente alla Congregazione Somasca. Ad ogni modo, sin da subito, il giovane studente rivela la propria passione per il disegno e per l’arte in genere. È suo zio materno ad impartirgli i primi rudimenti di pittura, per poi indirizzarlo prima dal cognato Francesco Fracanzano e poi verso la bottega del pittore Aniello Falcone, la cui influenza si avvertirà nei suoi iniziali lavori. In questa fese di apprendistato, il pittore Rosa ha tra i propri maestri anche Jusepe de Ribera, molto considerato a Napoli. Giovanissimo, Salvator attira le attenzioni degli altri artisti napoletani, grazie al suo luminoso talento. Il pittore Lanfranco allora, vedendolo lavorare, gli consiglia di recarsi a Roma per qualche anno onde ampliare i propri orizzonti artistici frequentando gli ambienti più caldi della pittura.
Nel 1634 pertanto si trasferisce nella capitale. L’adesione che compie, dal punto di vista pittorico, in questo periodo, lo lega alla Scuola dei Bamboccianti. Ben presto però ne rinnega gli stilemi, pentendosi di aver preso parte all’indirizzo. Contemporaneamente Rosa si dedica anche alla coreografia, allestendo le scene di spettacoli carnascialeschi di carattere satirico, collaborando con Claude Lorrain e Pietro Testa, artisti barocchi, e facendo la conoscenza del Bernini, con cui è sovente in disaccordo. Entro il 1636 però l’artista ritorna nella sua città, Napoli. Comincia allora a dedicarsi all’esecuzione di paesaggi con scene che rappresentano vere e proprie anticipazioni del romanticismo pittorico, con soggetti movimentati, spesso drammatici. Svende questi dipinti per pochi soldi, senza che il suo enorme talento venga compreso negli ambienti di rilievo, restando all’ombra dei nomi che in quel periodo dominano la scena artistica cittadina, come il suo maestro Ribera, ma anche Battistello Caracciolo e Belisario Corenzio. Nel 1638 viene chiamato a Roma dal cardinale Francesco Maria Brancaccio, da poco tempo nominato vescovo a Viterbo. Per Salvator Rosa è una piccola svolta, perché l’ecclesiastico gli affida la sua prima opera di carattere sacro, all’interno della chiesa Santa Maria della Morte. L’opera che realizza è “L’Incredulità di Tommaso”, per l’altare della chiesa; in quest’occasione il pittore fa la conoscenza del poeta Abati, con cui stringe un’amicizia sincera. È proprio il letterato, successivamente, ad incoraggiare Rosa dal punto di vista poetico e letterario.
Nell’autunno del 1639 Rosa è a Firenze. Qui vi rimane, secondo le fonti, per circa otto anni, promuovendo l’Accademia dei Percossi che riunisce poeti, letterati e pittori. L’artista partenopeo per un certo periodo alberga a Volterra, presso Ugo e Giulio Maffei, altri accademici. Al contempo, ormai versato in più ambiti artistici, compone le sue celebri “satire”, dedicate rispettivamente alla musica, alla pittura, alla poesia e alla guerra. È proprio in questo momento florido della sua vita artistica che il pittore napoletano, per via della scelta dei suoi soggetti bellici e movimentati, viene soprannominato “Salvator delle battaglie”, autore come detto di grandiose e sceniche guerriglie per mari e via terra (splendido un suo dipinto custodito al Louvre, dal titolo “Battaglia eroica”). Tuttavia il suo catalogo non si esaurisce all’unico tema della battaglia. Un famoso suo autoritratto, custodito agli Uffizi, è realizzato proprio in questo periodo fiorentino. Inoltre il pittore si dedica anche a soggetti di tipo esoterico e magico, come il dipinto “Streghe e incantesimi”, oltre ad opere dal taglio più allegorico e filosofico (si guardi al celebre dipinto “La Fortuna”). Successivamente, Rosa sarebbe rientrato a Roma, luogo poi della sua morte. Qui, ormai apprezzato da tutto l’ambito artistico della capitale, avrebbe prodotto alcuni dipinti con soggetti differenti rispetto al passato. Scompaiono i paesaggi turbolenti, per lasciare il posto a nuovi soggetti di tipo classicheggiante, come il noto “La morte di Socrate”. A questo periodo tuttavia, risalgono alcuni suoi capolavori, come il celebre dipinto dal titolo “Lo spirito di Samuele evocato davanti a Saul dalla strega di Endor”, poi comperato da re Luigi XIV e dall’afflato mitologico.
Resta da aggiungere, in merito alla vita dell’artista di Napoli, una nota dal carattere oscuro, riguardante la sua partecipazione alla così denominata “Compagnia della Morte”, un’associazione nata per “uccidere” persone di nazionalità spagnola a seguito di un assassinio subìto da alcuni membri della compagnia. Sebbene poco si sappia del ruolo da lui ricoperto all’interno della società segreta, è indubbio che Rosa vi abbia fatto parte, quasi certamente prima di fare ritorno definitivo nella capitale. Anzi, il suo rientro a Roma, quasi sicuramente sarebbe stato causato dall’arrivo degli austriaci, i quali avrebbero sciolto la cosiddetta “compagnia”. Salvator Rosa muore a Roma, il 15 marzo del 1673 all’età di 57 anni. Il suo corpo è sepolto in Santa Maria degli Angeli con un monumento eretto dal figlio Augusto.
15/03/1738 – Nasce a Milano il giurista, filosofo, economista e letterato Cesare Beccaria.
Figlio di Maria Visconti di Saliceto e Giovanni Saverio di Francesco, dopo avere studiato a Parma, si laurea a Pavia nel 1758. Due anni più tardi sposa Teresa Blasco, sedicenne di Rho, nonostante l’opposizione del padre (che gli fa perdere, così, i diritti di primogenitura). Cacciato di casa dopo le nozze, viene ospitato dall’amico Pietro Verri, che per qualche periodo gli offre anche un sostegno economico. Nel frattempo legge le “Lettere persiane” di Montesquieu, che lo portano ad avvicinarsi all’Illuminismo. Dopo avere fatto parte del cenacolo dei fratelli Verri (c’è anche Alessandro, oltre a Pietro), scrive per la rivista “Il Caffè” ed è tra i creatori, nel 1761, dell’Accademia dei Pugni. Nel 1762 diventa padre di Giulia; nel frattempo in questo periodo gli sorge il desiderio di scrivere un libro finalizzato a dare vita a una riforma in sostegno dell’umanità più sofferente, anche in virtù dell’insistenza di Alessandro Verri, protettore delle persone in carcere: è così che Cesare Beccaria nel 1764 pubblica (inizialmente in maniera anonima), il trattato “Dei delitti e delle pene”, che si oppone alla tortura e alla pena di morte.
In particolare, secondo Beccaria, la pena di morte può essere considerata una guerra di uno Stato intero contro un singolo individuo, e non può essere accettata poiché il bene della vita non può essere a disposizione della volontà dello Stato stesso. Essa, inoltre, non ha un effetto deterrente sufficiente da giustificarne il ricorso, poiché – sempre secondo il filosofo milanese – il criminale tende ad avere paura dell’ergastolo o della schiavitù molto più che della morte: i primi costituiscono una sofferenza reiterata, mentre la seconda rappresenta un male definitivo, unico. Non solo: per Cesare Beccaria chi pensa alla pena di morte può ricavarne una minore fiducia nelle istituzioni oppure rendere addirittura più disposti verso il delitto. In “Dei delitti e delle pene”, quindi, il giurista meneghino propone di sostituire la pena di morte con i lavori forzati, utili a dimostrare l’efficacia della legge tramite un esempio prolungato nel tempo e utile alla collettività, che viene così risarcita dei danni causati; i lavori forzati, al tempo stesso, permettono di salvaguardare il valore dell’esistenza umana, e ha un’azione intimidatoria: la morte del corpo viene sostituita dalla morte dell’anima. Nell’opera, inoltre, Beccaria parla dei delitti come violazioni di un contratto, adottando un punto di vista evidentemente illuministico e utilitaristico che lo porta a ritenere che pena di morte e tortura, più che ingiuste o umanamente poco accettabili, siano semplicemente e pragmaticamente poco utili. Non sono motivazioni di carattere religioso, dunque, ma ragioni di carattere pratico a muovere la penna del giurista milanese, che tra l’altro evidenzia come il delitto non vada identificato come un’offesa alla legge divina, la quale invece fa parte non della sfera pubblica ma della coscienza individuale di una persona. E’ anche per questo motivo che, già nel 1766, “Dei delitti e delle pene” viene messo all’Indice dei libri proibiti per colpa della distinzione che in esso viene sancita tra reato e peccato.
Sempre nel 1766 Cesare Beccaria diventa padre di Maria, la sua seconda figlia, nata con problemi neurologici gravi, mentre l’anno successivo nasce il primo maschio, Giovanni Annibale, che però muore pochissimo tempo dopo. Successivamente viaggia fino a Parigi, seppure controvoglia (al punto da avere una crisi di panico al momento di lasciare la moglie e partire), per incontrare i filosofi francesi intenzionati a conoscerlo. Per qualche tempo viene ospitato nel circolo del barone d’Holbach, ma poco dopo torna a Milano, geloso della moglie. In Italia, Beccaria – a dispetto di un carattere scostante e fragile, indolente e poco incline alla vita sociale – diventa professore di Scienze Camerali. Nel 1771 entra a far parte dell’amministrazione austriaca, prima di essere nominato membro del Supremo Consiglio dell’Economia; ricopre tale carica per più di vent’anni (nonostante le critiche di Pietro Verri e di altri amici, che lo additano come burocrate) e contribuisce, tra l’altro, all’istituzione delle riforme asburgiche avviate sotto Maria Teresa e Giuseppe II. Nel 1772 nasce Margherita, la sua quarta figlia, che però non sopravvive più di pochi giorni. Due anni più tardi, il 14 marzo del 1774, Teresa muore, probabilmente a causa della tubercolosi o della sifilide. Dopo poco più di un mese di vedovanza, Cesare sottoscrive il contratto di matrimonio con Anna dei Conti Barnaba Barbò: a meno di tre mesi dalla morte della prima moglie, Beccaria si risposa il 4 giugno del 1774, destando notevole clamore.
Nel frattempo Giulia, la sua prima figlia, viene messa in collegio (benché in passato Cesare avesse dimostrato di disprezzare i collegi religiosi) e ci rimane per poco meno di sei anni: durante questo periodo Beccaria la ignora completamente, non volendone sapere più nulla e arrivando perfino a non considerarla più sua figlia. Egli è convinto, infatti, che Giulia sia il frutto di una delle tante relazioni che Teresa aveva avuto con altri uomini fuori dal matrimonio. Vistasi negare l’eredità materna, Giulia nel 1780 esce dal collegio, avvicinandosi a sua volta agli ambienti illuministi: due anni più tardi Beccaria la dà in sposa al conte Pietro Manzoni, che ha vent’anni più di lei. Nel 1785 Cesare Beccaria diventa nonno di Alessandro Manzoni (ufficialmente figlio di Pietro, ma molto più probabilmente figlio di Giovanni Verri, fratello di Alessandro e Pietro, amante di Giulia), il futuro autore dei Promessi Sposi. Cesare Beccaria muore a Milano il 28 novembre 1794, all’età di cinquantasei anni, per colpa di un ictus. Il suo corpo viene sepolto nel Cimitero della Mojazza, fuori Porta Comasina, invece che nella tomba di famiglia. Ai funerali è presente anche il piccolo Alessandro Manzoni.
15/03/1907 – Nasce a Palermo il giornalista e radiocronista Nicolò Carosio.
Figlio di un ispettore di dogana, nasce a Palermo nel quartiere Seralcadi, dove suo nonno, omonimo, Nicolò Carosio, gestiva un negozio di libri, divenuto anche casa editrice e cenacolo letterario. La madre era una pianista maltese, Josy Holland. Si laureò in giurisprudenza a Venezia. Seguendo il padre nei suoi viaggi lavorativi in Inghilterra, Carosio ebbe modo di ascoltare le radiocronache della BBC. Nel 1932 decise di proporsi all’EIAR (la Radio di Stato) commentando un immaginario derby Torino-Juventus e lasciando a bocca aperta la commissione d’esami. L’Eiar gli offrì un contratto di collaborazione. Per tutta la sua carriera, Carosio lavorò sempre e solo come collaboratore esterno. Il 1º gennaio 1933 debuttò a Bologna per la partita amichevole Italia-Germania. Inaugurò per l’EIAR le radiocronache dei Mondiali di calcio del 1934, che l’Italia padrona di casa vinse; due anni dopo fu la voce della Nazionale di calcio alle Olimpiadi di Berlino (1936); fu confermato anche ai Mondiali di calcio del 1938 in Francia.
Nel 1949, a causa della concomitante cerimonia della cresima del figlio, dovette rinunciare alla trasferta di Lisbona al seguito del Grande Torino, circostanza che gli salvò la vita. Nel viaggio di ritorno, difatti, l’aeroplano della squadra si schiantò contro la Basilica di Superga (Tragedia di Superga). In televisione nel 1954, anno dell’inizio ufficiale delle trasmissioni, divenne famoso per il suo «quasi goal!», esclamazione che sottolineava un’azione da gioco conclusa di poco fuori dallo specchio della porta. Commentò i trionfi in Coppa Campioni del Milan e dell’Inter nel 1963, 1964, 1965 e 1969. Fu la voce anche al mondiale del 1966 in Inghilterra, poi, dopo la parentesi di Nando Martellini che seguì l’Italia vittoriosa al europeo del 1968 (Carosio commentò la prima finale, Martellini la seconda), riprese il microfono in occasione dei mondiali del 1970 in Messico. Pensionato dal 1971, con l’avvento dell’emittenza privata si dedicò sporadicamente al commento di incontri delle serie minori per l’utenza locale. Nel film L’arbitro apparve anche nella parte di se stesso, usando una fraseologia tipica dei suoi commenti reali. Curò a lungo anche una rubrica sul settimanale a fumetti Topolino (Vi parla Nicolò Carosio) e per la stessa testata disneyana firmò alcuni ritratti di personalità dello sport, dello spettacolo e dell’arte (I grandi amici di Topolino).
È morto a Milano il 27 settembre 1984: ricoverato da tempo nella clinica “Città di Milano” per disturbi polmonari, non resse a una crisi respiratoria. Lasciò la moglie, Eugenia Zinelli, e due figli, Paolo e Giovanna. Nel centenario della nascita, il 15 marzo 2007, le poste italiane hanno dedicato un francobollo alla sua memoria.