
ACCADDE OGGI – 08/03/2019
8 Marzo 201908/03/1401 – Nasce a San Miniato, in provincia di Pisa, il primo duca di Milano, Francesco Sforza.
Uomo d’arme e politico di grande importanza ha segnato l’inizio della dinastia degli Sforza nella città di Milano, diventandone duca. L’iniziatore dell’antico casato milanese non ha chiare origini nobiliari, almeno di nascita. È uno dei sette figli illegittimi di Muzio Attendolo Sforza e di Lucia da Terzano, o Torsano, come viene indicata in alcune cronache. A riconoscerne la legittimità di nascita sarà la regina Giovanna con una concessione speciale, ma solo molto tempo dopo. Il giovane Francesco trascorre l’infanzia a Tricarico, in Lucania, e in Toscana anche, suo luogo di nascita. A Firenze è ospite della corte ferrarese di Niccolò III d’Este. Con il padre Muzio poi, che sogna per lui un ingresso riconosciuto nella nobiltà, si reca a Napoli nel dicembre del 1412 e riceve il titolo di cavaliere da re Ladislao I di Napoli. Muzio allora nel 1418 gli dà in moglie Polissena Ruffo, principessa di Calabria, vedova del cavaliere francese Giacomo de Mailly, proprietaria di molte terre nel cosentino. Il matrimonio avviene il 23 ottobre del 1418, nella città di Rossano. Tuttavia solo due anni dopo, poco dopo la morte della loro figlioletta, anche la giovane moglie Polissena muore. Da questo momento in poi il futuro duca di Milano, ancora giovane, si fa valere nelle milizie paterne, dove svolge il suo apprendistato marziale.
Nel 1419 sale agli onori della cronaca quando libera proprio Muzio, rimasto bloccato a Viterbo dalle truppe “braccesche”, guadagnandosi da quel momento la prima linea in battaglia. L’anno dopo occupa Acerra insieme a Micheletto Attendolo e nel 1421 stabilisce la propria residenza a Cosenza, onde organizzare un esercito da schierare per difendere Luigi III d’Angiò. Nell’estate del 1425 il duca di Milano, Filippo Maria Visconti, propone a Francesco Sforza una condotta come capitano con un contratto quinquennale. Il futuro duca non chiede altro e comincia una serie di battaglie contro i Carmagnola. Tuttavia il presidio di Genova non va per il verso giusto e il capitano del ducato milanese cade vittima di un’imboscata. La sconfitta è bruciante e il duca di Milano per punirlo lo relega con la paga dimezzata a Mortara con l’ordine di riorganizzare le truppe, di fatto prigioniero del castello. Nel 1430 terminati gli impegni con il Visconti, Sforza si reca a Lucca per combattere contro i fiorentini. Ma proprio questi ultimi, conoscendo il valore del condottiero nato nelle loro terre, gli offrono subito un ingaggio allettante. A questo punto il duca Visconti tenta di mantenere Sforza sotto il proprio controllo e per aggraziarselo gli offre in sposa la figlia Bianca Maria, che all’epoca ha solo cinque anni ed è estromessa da qualsiasi successione (con lei, terminerebbe la dinastia dei Visconti). Attratto dalle proprietà in dote Francesco Sforza accetta la profferta e ratifica il contratto di fidanzamento il 23 febbraio del 1432, nel castello di Porta Giovia, residenza milanese dei Visconti. Prima però, a conferma della sua convinzione, il futuro duca di Milano cerca in tutti i modi di farsi annullare dal papa il matrimonio precedente.
Tra il 1433 e il 1435 Francesco Sforza è impegnato in diverse battaglie, con alleanze alterne e molti capovolgimenti. Prima attacca lo stato del Papa e prende Ancona in nome dei Visconti. Poi, su incarico di Eugenio IV, viene nominato gonfaloniere della chiesa e vicario della città stessa. Dal meridione però subisce da parte del Alfonso d’Aragona l’occupazione di tutti i propri possedimenti all’interno del regno di Napoli. Il tentativo è quello di allontanarlo dal Nord, ma il condottiero non perde la testa: la sua mira principale rimane sempre Milano. Intanto, tra il 1436 e il 1439, si mette al servizio prima di Firenze e poi di Venezia. Nel 1440, persi i territori nel Regno di Napoli, Sforza si riconcilia con il Visconti, che in questo periodo deve fronteggiare un altro condottiero, altrettanto temibile, Niccolò Piccinino. Questi, senza troppi ambagi, gli chiede la signoria di Piacenza. Il 25 ottobre del 1441 Francesco Sforza sposa finalmente Bianca Maria Visconti nella città di Cremona, presso la Chiesetta di San Sigismondo. Alleatosi con Renato d’Angiò, pretendente al trono di Napoli e avversario di Alfonso, Francesco muove le proprie milizie nel Sud ma non riesce ad ottenere consistenti vittorie. Allora riprende in mano i proprio terreni in Romagna e nelle Marche, sconfiggendo il rivale Piccinino, grazie anche all’aiuto di Venezia e di Sigismondo Pandolfo Malatesta. Il passo successivo, per il futuro duca di Milano, è il rientro nella città lombarda, dal Visconti.
Nel 1447 Filippo Maria muore senza eredi. La dinastia viene sostituita dall’Aurea Repubblica Ambrosiana. I maggiorenti del nuovo ordine si rivolgono proprio a Francesco Sforza e gli offrono il comando. Altre città del ducato, come Como, Alessandria e Novara, gli riconoscono questa qualifica, mentre Lodi e Piacenza si danno ai Veneziani. Sforza allora si lancia nella guerra che entro il 1450 lo porta a prendere definitivamente Milano. Sconfigge i veneti a Caravaggio, il 14 settembre 1448, e prova a chiudere con la Serenissima, chiedendo che gli fosse riconosciuta ufficialmente la signoria su Milano e sul ducato (ora repubblica). In cambio cede Crema, il bresciano e il territorio della Giara d’Adda. Nel frattempo però a Milano la Repubblica è forte, rappresentata dalle più antiche famiglie milanesi, oltre ad una schiera di commercianti e borghesi. Ci sono i Trivulzio, i Cotta, i Lampugnani e molte altre famiglie. I maggiorenti non vogliono cadere sotto un nuovo signore, ma gestirsi da soli, democraticamente. Si costituiscono degli ordini apertamente nemici allo Sforza, i quali pongono addirittura una taglia di 200.000 ducati su di lui. A questo punto il futuro duca comincia l’azione contro Milano, agli inizi del 1449, occupando il territorio fra l’Adda e il Ticino. Venezia si allea con la Repubblica, nonostante i patti, ma l’assedio sforzesco è imponente e mette allo stremo la popolazione: trascorrono otto mesi di battaglia. Il 22 marzo del 1450 Francesco entra a Milano con la moglie e il figlio Gian Galeazzo. Avviene la presentazione ufficiale del nuovo Duca Francesco I Sforza, con consegna dello scettro e dello stendardo, nel quale campeggia il simbolo visconteo, la biscia e l’aquila imperiale. Ottiene il sigillo, la spada e le chiavi della città. Il suo governo sarebbe durato per sedici anni.
Francesco Sforza durante il suo periodo di comando si rivela un signore illuminato, modernizzando la città, creando un sistema fiscale efficiente, tale da aumentare le entrate della città. La sua corte attira artisti e letterati. Lo stesso Niccolò Machiavelli ne cita le imprese come esempio di buon “principe”. Francesco I Sforza muore a Milano il giorno 8 marzo 1466, all’età di 64 anni.
08/03/1566 – Nasce a Venosa, in provincia di Potenza, il compositore Carlo Gesualdo.
Nato da Fabrizio e Geronima, sorella di Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano e futuro santo, si trasferisce giovanissimo a Napoli. Nel capoluogo partenopeo, Carlo viene avviato dal padre, amante del bello e noto mecenate, a severi studi letterali e musicali, in quella che veniva considerata una delle più prestigiose accademie di corte dell’epoca della Controriforma. Il giovane Carlo rivela presto il suo genio compositivo. A 19 anni pubblica il primo mottetto: “Ne reriscaris, Domine, delicta nostra”, “Perdona, Signore, i nostri peccati”. Nel 1584 muore il fratello maggiore Luigi e Carlo, principe di Venosa, deve assumersi l’onore ma soprattutto l’onere della continuazione del casato. Due anni dopo sposa, per volere delle famiglie (e previa dispensa papale), la cugina Maria D’Avalos, già vedova e madre (quindi certamente fertile), di sei anni più grande di lui e descritta dalle cronache dell’epoca come una donna molto avvenente. Dal loro matrimonio nasce Emanuele, erede del casato, ma l’unione tra i due sposi è tormentata. Mentre Carlo si dedica a giovinetti e donne ambigue, Maria s’innamora e intreccia una relazione con il bel Fabrizio Carafa, duca di Andria anch’egli sposato e con figli.
Per un lungo periodo si incontrano nello stesso palazzo napoletano dei Gesualdo, fin quando lo scandalo è sulla bocca di tutti. Il principe, di per sé quasi indifferente alla voce, viene incalzato dalle pressione esterne, specie da parte dello zio Giulio, forse innamorato di Maria ma da lei respinto. Carlo infine decide di lavare col sangue l’offesa al nome della sua famiglia: la notte del 17 Ottobre 1590 finge di partire per una battuta di caccia, sorprende gli amanti in flagrante e li fa uccidere dai servitori. I loro corpi nudi e straziati mostrano alla città che l’onore del Principe è salvo. Confessato il crimine al conte di Mirando, rappresentante del re di Spagna a Napoli, Carlo viene subito prosciolto per “causa giusta”. Il conte di Mirando suggerisce ad ogni modo al Principe di rifugiarsi a Gesualdo per sfuggire all’ira delle famiglie D’Avalos e Carafa, che considerano grave offesa il delitto compiuto per mano dei servitori. Tornato a Gesualdo, Carlo è al riparo da ogni vendetta esterna, ma la vendetta peggiore si consuma ogni giorno nella sua stessa anima, poiché il ricordo del duplice delitto lo tormenterà per sempre.
Nel 1594 ad attendere Carlo c’è un secondo matrimonio “politico”: sposa Eleonora d’Este, da cui avrà Alfonsino, morto in tenera età. A Ferrara Carlo Gesualdo si introduce nell’Accademia musicale più aristocratica ed esclusiva del tempo, ma non riesce a dialogare né artisticamente né umanamente, se non con il duca Alfonso II d’Este. Alla morte di questi (avvenuta nel 1596), decide quindi di fare ritorno nel castello di Gesualdo, fatto restaurare tempo addietro e trasformato in una lussuosa dimora, capace di accogliere anch’essa una fastosa corte musicale. Durante questo lungo periodo della sua vita, 17 anni, ossessionato dall’espiazione dei propri peccati e dalla ricerca del perdono divino, fece edificare chiese, conventi e monumenti nel paese, tra cui la celebre tela “Il perdono di Carlo Gesualdo” di Giovanni Balducci, in cui il principe viene raffigurato in ginocchio, vicino allo zio Carlo Borromeo, in atteggiamento supplichevole. Nel sereno ambiente gesualdino, Carlo si dedica in questi anni alla musica (ormai solo sacra…) e alla caccia, mentre le sue condizioni fisiche e psicologiche continuano a deteriorarsi. La moglie Eleonora è oggetto di continui maltrattamenti; la personalità dello stesso Carlo, sempre più attanagliata dal rimorso, è preda di ossessioni religiose che lo portano addirittura a violente pratiche autopunitive.
Nella disperata ricerca di espiazione, il principe precipita in sempre più penosi stati maniacali e depressivi. Il 20 Giugno 1613 giunge la notizia della morte dell’unico suo erede Emanuele, caduto da cavallo. Carlo ne è sopraffatto: si ritira in una piccola stanza del castello, “contigua alla sua camera dello zembalo”, dove muore l’8 Settembre 1613. E con lui si estingue il grande casato dei Gesualdo. La sua tomba è collocata nella chiesa del Gesù Nuovo a Napoli dove, nella suntuosa cappella di S. Ignazio, ancora oggi si può leggere l’iscrizione che ne ricorda il nome. Alcuni studiosi ipotizzano, invece, la sepoltura a Gesualdo, nella chiesa di Santa Maria delle Grazie, adiacente al Convento dei Padri Cappuccini da lui fatto edificare. La più autentica ed importante eredità di Carlo Gesualdo è e sarà sempre il suo genio musicale.
Fu infatti il primo ad alterare di un semitono gli intervalli melodici, creando nelle armonie originali squilibri delle tonalità. Questa sorta di cacofonia musicale, unita ad un’intrinseca passionalità, lo portò a comporre le celebri polifonie dei madrigali a cinque voci, che hanno ispirato nei secoli musicisti del calibro di Stravinskji (il quale dedicò al “Principe dei musici” addirittura un “Monumentum”), ma anche la moderna dodecafonia e cantautori come Franco Battiato. Una musica che, senza alcuna difficoltà, possiamo definire senza tempo, in grado ancora oggi di stupire ed emozionare musicisti e semplici appassionati.
08/03/1999 – Muore ad Hollywood il giocatore di baseball statunitense, di origini siciliane, Joe Di Maggio.
Joe DiMaggio, il cui vero nome è Giuseppe Paolo DiMaggio, nasce il 24 novembre del 1914 nel villaggio di pescatori di Martinez, in California (Usa). I suoi genitori sono immigrati italiani provenienti da Isola delle femmine, Palermo, e Joe cresce in una famiglia piuttosto numerosa: divide la piccola casa composta da sole quattro stanze con quattro fratelli e quattro sorelle. A causa delle difficili condizioni economiche della famiglia, Joe è costretto ad aiutare il padre e i fratelli che gestiscono un’attività di pesca. Ma fare il pescatore non gli piace affatto, così approfitta dell’occasione offertagli da uno dei suoi fratelli, Vince, che lo raccomanda al dirigente della squadra di baseball dove lui stesso gioca. Joe comincia a giocare a diciassette anni con un salario di 250 dollari al mese. Nel 1934 sembra quasi che la sua carriera sia arrivata al capolinea, quando si rompe i legamenti del ginocchio sinistro mentre scende da un autobus per andare a cena da una delle sorelle. Nonostante l’incidente, il talent scout dei New York Yankees è convinto che Joe DiMaggio possa rimettersi dall’infortunio e dimostrare sul campo il suo talento. Dopo aver superato un test al ginocchio, ottiene un contratto di 25 mila dollari; siamo nel 1936.
Quando finalmente compare sul campo degli Yankees lo accolgono 25 mila bandiere tricolore issate dai suoi connazionali italo-americani. Il grande successo presso il pubblico di tifosi gli procura una serie di affettuosi soprannomi tra cui “Joltin Joe”, per l’estrema potenza delle sue battute, e “The Yankee Clipper”. Quest’ultimo nomignolo gli viene affibbiato dal commentatore sportivo Arch Mc Donald nel 1939 per la velocità delle sue battute, paragonate al nuovo aereo della Pan American Airlines. Joe DiMaggio ricambia l’affetto dei tifosi facendo vincere agli Yankees ben nove titoli in tredici anni. La sua maglia con il numero nove, poi sostituito con il cinque, diventa quella più desiderata da tutti i ragazzini americani, e Joe accumula record sportivi su record sportivi. Nel gennaio del 1937 incontra l’attrice Dorothy Arnold sul set del film “Manhattan Merry go round”, in cui Joe ha una piccola parte. I due si sposano nel 1939 ed hanno un figlio: Joseph Paul III. DiMaggio continua a giocare fino all’età di 36 anni, sempre e solo con gli Yankees. Dopo aver lasciato la carriera agonistica, torna a far parte del mondo del baseball come allenatore degli Oakland Athletics.
Nel 1969 viene definito “Il più grande giocatore di baseball vivente”, titolo vinto a seguito di un maxi sondaggio popolare che rende omaggio ai suoi record sportivi: in tutta la sua carriera Joe ha totalizzato ben 2.214 colpi vincenti! La sua vita privata, come quella sportiva, catalizza l’attenzione del pubblico soprattutto dopo l’incontro con Marilyn Monroe, che pare inizialmente si rifiuti persino di incontrare il grande campione. I due però finiscono per incontrarsi nel 1954 nella San Francisco City Hall, ed è subito amore. Il matrimonio purtroppo dura solo nove mesi. La causa dei continui litigi pare sia la scarsa comprensione di Joe per il tipo di lavoro di Marilyn, e le continue gelosie provocate dallo stile di vita dell’attrice. La goccia che fa traboccare il vaso è la famosa scena del film “Quando la moglie è in vacanza” di Billy Wilder, in cui Marilyn assiste impotente al sollevarsi della sua gonna fino al di sopra del ginocchio. Dopo la rottura con Marilyn Monroe, vengono attribuite all’ex giocatore di baseball una serie di fidanzate, e più volte i giornali di cronaca rosa ne annunciano le nozze. Nel 1957 si rumoreggia che Joe stia per sposare la bella Miss America, Marian Mcknight; in realtà non si sposerà mai più, rimanendo profondamente legato a Marilyn, e rientrando di fatto nella sua vita dopo la fine del matrimonio dell’attrice con il commediografo Arthur Miller.
È Joe DiMaggio ad assicurarsi delle dimissione di Marilyn da una clinica psichiatrica nel 1961. Marilyn lo raggiunge così in Florida. I due si dichiarano semplicemente amici, anche se i pettegolezzi riguardo un loro nuovo matrimonio si diffondono subito. È proprio il figlio di Joe a parlare a telefono con Marilyn la sera del suo suicidio, e a riferire che l’attrice gli sia parsa tranquilla. Durante il funerale dell’attrice il grande campione le confessa ancora una volta il suo amore e comincia ad inviare tutti i giorni sulla sua tomba sei rose rosse; conserverà questa romantica abitudine fino alla data della sua morte. Nel 1998 Joe DiMaggio viene ricoverato per un cancro ai polmoni e rimane in ospedale per una lunghissima degenza, che dura ben 99 giorni: muore il 9 marzo del 1999, all’età di 84 anni.