
ACCADDE OGGI – 07/03/2019
7 Marzo 201907/03/1785 – Nasce a Milano lo scrittore, poeta e drammaturgo Alessandro Manzoni.
Nato da una relazione extra-matrimoniale tra Giulia Beccaria e Giovanni Verri, fratello di Alessandro e Pietro (noti esponenti dell’Illuminismo), viene immediatamente riconosciuto dal marito di lei, Pietro Manzoni. Nel 1791 entra nel collegio dei Somaschi a Merate, dove rimane fino al 1796, anno in cui viene ammesso presso il collegio dei Barnabiti. Dal 1801 abita col padre a Milano, ma nel 1805 si trasferisce a Parigi, dove a quel tempo invece risiedeva la madre insieme con il suo compagno, Carlo Imbonati (lo stesso a cui Giuseppe Parini aveva dedicato l’ode “L’educazione”), morto poi in seguito quello stesso anno. Proprio in onore di lui, in segno della stima che gli portava, Manzoni compone il carme “In morte di Carlo Imbonati”. A Parigi rimane fino al 1810 e si accosta, stabilendo anche forti amicizie, all’ambiente degli ideologi, che ripensavano in forme critiche e con forti istanze etiche la cultura illuminista. Rientrato a Milano nel 1807, incontra e si innamora di Enrichetta Blondel, con la quale si sposa con rito calvinista e dalla quale avrà negli anni ben dieci figli (otto dei quali gli morirono tra il 1811 e il 1873). Il 1810 è l’anno della conversione religiosa della coppia: il 22 maggio Enrichetta abbraccia la fede cattolica e, tra l’agosto ed il settembre, il Manzoni si comunica per la prima volta. Dal 1812 lo scrittore compone i primi quattro “Inni Sacri”, che verranno pubblicati nel ’15; l’anno seguente inizia la stesura de “Il conte di Carmagnola”.
E’ questo, per il Manzoni, un periodo molto triste dal punto di vista familiare (dati i numerosi lutti) ma molto fecondo da quello letterario: nei due decenni successivi (all’incirca fino al ’38-’39) compone, tra gli altri, “La Pentecoste”, le “Osservazioni sulla morale cattolica” (che, a parte le ragioni ideologiche, sono un prezioso documento della sensibilità psicologica del Manzoni), la tragedia “l’Adelchi”, le odi “Marzo 1821” e “Cinque Maggio”, le “Postille al vocabolario della crusca” ed avvia la stesura del romanzo “Fermo e Lucia”, uscito poi nel 1827 col titolo “I promessi sposi” (ma la cui seconda e definitiva stesura avverrà nel 1840, con la pubblicazione a dispense corredata dalle illustrazioni del Godin). Il lungo lavoro di stesura del romanzo si caratterizza sostanzialmente per la revisione linguistica, nel tentativo di dare un orizzonte nazionale al suo testo, orientandosi sulla lingua “viva”, cioè parlata dai ceti colti della Toscana contemporanea. Per questo si recò a Firenze nel 1827 allo scopo di “risciacquare i panni in Arno”. Nel 1833 muore la moglie, ennesimo lutto che getta lo scrittore in un grave sconforto. Passano quattro anni e nel 1837 si risposa con Teresa Borri. La tranquillità familiare, però, è ben lungi dal profilarsi all’orizzonte, tanto che nel 1848 viene arrestato il figlio Filippo: è proprio in questa occasione che scrive l’appello dei milanesi a Carlo Alberto. Di due anni dopo è la lettera al Carena “Sulla lingua italiana”. Tra il ’52 e il ’56 si stabilisce in Toscana.
La sua fama di letterato, di grande studioso di poetica ed interprete della lingua italiana si andava sempre più consolidando e i riconoscimenti ufficiali non si fanno attendere, tanto che nel 1860 ha il grande onore di essere nominato Senatore del Regno. Purtroppo, accanto a questa soddisfazione di rilievo segue sul piano privato un altro incommensurabile dolore: appena un anno dopo la nomina, perde la seconda moglie. Nel 1862 viene incaricato di prendere parte alla Commissione per l’unificazione della lingua e sei anni dopo presenta la relazione “Dell’unità della lingua e dei mezzi per diffonderla”.
Alessandro Manzoni muore a Milano il 22 maggio 1873, venerato come il letterato italiano più rappresentativo del secolo e come il padre della lingua italiana moderna. Per la sua morte Giuseppe Verdi compose la stupenda e laica “Messa da Requiem”
07/03/1908 – Nasce a Roma l’attrice Anna Magnani.
Antidiva per eccellenza, Anna Magnani è stata una figura chiave del neorealismo italiano, interpretando con stile inimitabile il personaggio della popolana focosa e sboccata, ma allo stesso tempo sensibile e generosa, incarnazione dei valori genuini di un’Italia minore. I personaggi caratterizzati dal suo temperamento focoso e passionale, ma capaci anche di toccanti e imprevedibili dolcezze, le si addicevano in modo perfetto. Anna Magnani è ricordata per quella sua inarrivabile e passionale carica umana, che talvolta sfociava in sanguigne manifestazioni di rabbia o di affetto, e che la distinguevano, oltre come inarrivabile interprete, come donna forte e sensibile, anche se profondamente tormentata. Nata il 7 marzo 1908, nonostante alcune fonti la facciano nascere ad Alessandria d’Egitto, Anna Magnani ha sempre sostenuto di esser nata a Roma, città dalla quale ha preso tutta la sua grande passionalità e la sua smisurata forza d’animo.
Cresciuta dalla nonna materna in condizioni di estrema povertà, Anna Magnani comincia molto presto a cantare nei cabaret e nei night-club romani e contemporaneamente studia all’Accademia d’Arte Drammatica. Tra il 1929 e il 1932 lavora nella compagnia teatrale diretta da Dario Niccodemi e nel 1934 passa alla rivista. Diviene ben presto uno dei nomi più richiesti del teatro leggero italiano. Lavora con Vittorio De Sica e con Totò, con il quale recita in numerose riviste, come “Quando meno te l’aspetti” (1940) e “Volumineide” (1942), entrambi di Michele Galdieri. In cinema si rivela nel film “Teresa Venerdì” (1941), di Vittorio De Sica, dove interpreta una bizzarra canzonettista. In seguito interpreterà alcune commedie leggere (“Campo de’ Fiori”, 1943; “L’ultima carrozzella”, 1944; “Quartetto pazzo”, 1945), fino a quando arriva la sua completa rivelazione nel film neorealista “Roma città aperta” (1945) di Roberto Rossellini, con il quale avrà una burrascosa ma intensa relazione amorosa. In quest’ultimo film Anna Magnani si rivela interprete dotata di una notevole quanto sofferta sensibilità, nella parte di Pina, popolana romana che viene uccisa mentre tenta di raggiungere il camion sul quale il suo uomo sta per essere deportato dai nazisti. Accanto ad uno straordinario Aldo Fabrizi, la Magnani rappresenta la redenzione di un popolo, attraverso le sue grandi qualità umane e morali, tanto che la sua interpretazione le farà meritare il primo dei suoi cinque Nastri d’argento. Nel trionfo neorealistico è d’obbligo tratteggiare per lei la figura della popolana sfacciata, volitiva, sempre sicura e persino violenta nella difesa dei giusti valori, attraverso la sua bonaria veemenza.
L’apoteosi di questa caratterizzazione è “L’onorevole Angelina” (1947) di Luigi Zampa, nel quale interpreta una donna di borgata “chiamata” a far politica, per rappresentare gli interessi della povera gente come lei. Nel 1948 Rossellini la chiama per interpretare l’episodio La voce umana (tratto dall’atto unico di Jean Cocteau) del film “L’amore” (1948), nel quale l’attrice si cimenta in un appassionato ed angoscioso soliloquio, un grande pezzo di bravura interpretativa, la telefonata di una donna abbandonata dall’amante. Nel 1951 un altro grande ruolo: quello della donna frustrata che trasmette le sue illusioni ed i suoi sogni infranti nell’impossibile carriera cinematografica della figlia, a costo anche di mettere in crisi il suo matrimonio, nell’amaro “Bellissima” (1951) di Luchino Visconti. Anche questo film le vale un meritatissimo Nastro d’argento. Nel 1952 veste i panni di Anita Garibaldi del film “Camicie rosse”. Il 1955 è l’anno in cui Anna Magnani vince addirittura il premio Oscar per la sua interpretazione nel film di Daniel Mann, “La rosa tatuata” (The Rose Tatoo, 1955), con Burt Lancaster, tratto dal romanzo di Tennessee Williams. In seguito sarà interprete di pellicole di media-alta qualità, come “Suor Letizia” (1956), “Nella città dell’inferno” (1958) e “Risate di gioia” (1960), il primo e unico film che la vede accanto al suo vecchio compagno di palcoscenico Totò. Nel 1962 la Magnani prende parte al film “Mamma Roma” di Pier Paolo Pasolini, un film poco riuscito, che la costringe entro i termini di una trasognata e brechtiana rappresentazione da guitto esasperato.
Gli anni ’60 non le offrono quindi molto a livello cinematografico, così Anna Magnani si rituffa nel teatro, interpretando “La lupa” di Verga, diretta da Franco Zeffirelli, e “Medea” di Anhouil, diretta da Giancarlo Menotti, che la vedono trionfare su tutti i più grandi palcoscenici d’Europa. Ma ecco che negli ultimi anni Anna Magnani vive un’altra stupenda esperienza artistica, quella della televisione. Tra il 1971 e il 1973 interpreta quattro stupendi film-tv scritti e diretti da Alfredo Riannetti, quali “La sciantosa”, “1943: un incontro”, “L’automobile” e “…correva l’anno di grazia 1870”. La sua ultima, breve, apparizione sugli schermi è stata nel film “Roma” (1972) di Federico Fellini, nella parte di se stessa. L’attrice romana aveva avuto un figlio dall’attore Massimo Serato. Il ragazzo era stato colpito dalla poliomielite, e la madre aveva dedicato il resto della sua vita ad occuparsi di lui.
La grande Anna Magnani muore di cancro a Roma il 26 settembre 1973, all’età di sessantacinque anni, assistita fino all’ultimo dall’adorato figlio Luca.
07/03/1999 – Muore a St Albans, nel Regno Unito, il regista, sceneggiatore e produttore cinematografico statunitense naturalizzato britannico Stanley Kubrick.
Stanley Kubrick nasce a New York, nel disagiato quartiere del Bronx, il 26 luglio 1928 da genitori di origine austriaca. Il rapporto con il cinema inizia nel 1941 quando, tredicenne, riceve in regalo dal padre una macchina fotografica ingombrante e poco maneggevole. Stanley, stimolato da quel regalo, comincia a scattare fotografie, imparando da solo come svilupparle. Fra i suoi vari scatti, ve n’è uno che ritiene particolarmente riuscito e che gira e rigira fra le mani senza sapere come utilizzare: l’immagine mostra un edicolante dietro una risma di giornali che annunciano la morte del presidente Roosevelt. Decide allora di portare la foto alla rivista “Look” che sceglie, a sorpresa, di pubblicarla. Poco dopo viene assunto in pianta stabile da “Look” come fotografo. Le sue prime prove cinematografiche hanno origine proprio dagli stimoli derivati dai servizi effettuati per la rivista. Uno, in particolare, è quello che gli fa scattare la molla giusta per condurlo sulla strada che lo renderà immortale. Nel 1948, infatti, è costretto a realizzare un servizio sul pugile Walter Cartier, servizio da cui in seguito nasce l’idea di seguire il pugile passo passo fino al giorno della gara. Il risultato prenderà forma definitiva nel cortometraggio “Il giorno del combattimento”, breve filmato di una quindicina di minuti. In seguito, gira anche un documentario “Il Padre volante”, incentrato sull’attività di padre Fred Stadtmuller, uso a raggiungere le sue missioni nel New Mexico a bordo di un piccolo aereo.
Ormai la decisione è presa: vuole diventare cineasta. La sua prima produzione è un film di scarso successo “Paura e desiderio”, pellicola che gli permette però di familiarizzare a un livello di maggiore profondità con tecniche registiche e di montaggio. Successivamente, a soli venticinque anni, si cimenta con “Il bacio dell’assassino”, lavoro nel quale si incarica di curare in pratica quasi tutto. E’ autore infatti non solo della regia, ma anche di fotografia, montaggio, soggetto, sceneggiatura e produzione. Già dagli esordi, dunque, stupisce l’ambiente del cinema e degli intenditori con la sua capacità di controllare tutte le fasi del processo creativo, una costante tipica del suo successivo modo di lavorare. Il seguente “Rapina a mano armata”, invece, si rivelò, per l’epoca, un funambolico esercizio di stile dove il tutto si incastra a perfezione. Da quel momento in poi ha origine una carriera fatta di pellicole che nella maggior parte dei casi si riveleranno pietre miliari nella storia del cinema. Si passa da “Orizzonti di gloria”, capolavoro tale da meritare i complimenti di Churchill a “Lolita”, film che provocò reazioni censorie da parte della censura americana tanto che quest’ultima ne ostacolò la realizzazione, evento che spinse poi Kubrick a trasferirsi in Inghilterra, da cui non sarebbe più rientrato.
Da allora inizia anche la sua vita sempre più appartata e discosta dalla mondanità. I suoi interventi pubblici si diradano sempre di più e solo i suoi film diventano espressioni tangibili del suo pensiero. Nasce anche una vera e propria leggenda sulle sue manie. Le cronache parlano di un uomo scontroso, maniacale, autoreclusosi nella sua villa-fortezza con sua moglie, i suoi figli e i suoi animali. Unico grande legame con il mondo esterno un computer, una delle passioni del regista. Di anno in anno anche i suoi film si fanno via via sempre più rari, fino a un periodo di attesa che sfiorerà, per l’ultima pellicola, i dodici anni. Ad ogni modo, nell’arco di tempo che passa fra le due pellicole citate aveva poi realizzato “Spartacus”, che gli valse quattro premi Oscar (miglior attore non protagonista, scenografie, costumi e fotografia), anche se Kubrick aveva rilevato alla regia Anthony Mann, licenziato in tronco all’inizio della lavorazione dal produttore. Prodotto con dodici milioni di dollari (nel ’78), fu un grande successo al botteghino cosa che gli permise, con i guadagni realizzati, di finanziare tutti i film successivi. “Spartacus” peraltro è l’unica pellicola su cui il regista non ha avuto il pieno controllo; ne esiste infatti una versione restaurata con alcune scene inedite. In seguito girò “Il Dottor Stranamore” (basato su una grottesca sceneggiatura che ironizza sul clima della guerra fredda) e, soprattutto, “2001: Odissea nello spazio” (Premio Oscar per gli effetti speciali, costati sei milioni e mezzo di dollari), un “cult” costato quattro anni di massacrante e meticolosa lavorazione.
Ossessivo e nevrotico nella richiesta ai suoi collaboratori della perfezione sia tecnica che formale, questo era l’unico modo che Kubrick conosceva per lavorare. Del 1971 è “Arancia Meccanica”, costato pochissimo e girato con una piccola troupe. Il segno caratteristico del film, dal punto di vista tecnico, è l’impiego massiccio della macchina a mano, oltre all’utilizzo di numerose tecniche e trucchi cinematografici. Pare comunque che Kubrick insoddisfatto del risultato, stampò personalmente con cura maniacale le prime quindici copie. Dopo qualche anno di silenzio, esce un nuovo capolavoro, “Barry Lindon” (quattro premi Oscar: migliore fotografia, musica, scenografie, costumi), di cui rimangono famosi gli interni, girati senza illuminazione artificiale ma utilizzando solo quella naturale o quella prodotta dalle candele (il film è ambientato in pieno settecento…). L’effetto complessivo, in alcune inquadrature, pare disporre il fruitore di fronte ad un quadro ad olio. Per ottenere questi risultati, Kubrik utilizzò sofisticate macchine da presa e pellicole speciali fornite dalla Nasa, nonchè obiettivi appositamente fabbricati.
Dopo quest’ennesimo capolavoro arrivarono anche “Shining” (film sul paranormale girato soltanto con tre attori e tratto da un libro di Stephen King) e, ben sette anni dopo, “Full Metal Jacket”, una visionaria esplorazione di quello che ha significato il conflitto vietnamita. Infine, l’ultimo titolo di Kubrick è il celebre “Eyes Wide Shut”, film che procurò numerose noie in sede di lavorazione. La ricerca della perfezione del regista era così esasperata che alcuni attori rinunciano ai suoi progetti. Questo straordinario ed irripetibile genio del cinema muore il 7 marzo del 1999 stroncato da un’infarto poco dopo la fine del missaggio di “Eyes Wide Shut”.