
di Luigi Anzalone
Il Rapporto Annuale dell’Istat, per la prima volta dal 2008, non è per il nostro Paese e per il Sud, il libro nero della recessione o, al massimo, di una stagnazione affannosa e priva di elementi non negativi. Che la performance dell’economia nazionale si attestasse, grazie soprattutto al Nord-Est e al Nord-Ovest, su valori positivi per quel che riguarda sia la crescita del Prodotto Interno Lordo che gli occupati era una cosa nota, anche se fa piacere che di essa vi sia una nuova conferma. Non era, invece, affatto noto che la ripresa fosse giunta anche nel Mezzogiorno, sicché i dati Istat riaprono il cuore alla speranza. A una speranza, che, ci si augura ardentemente, non vada delusa, ma divenga “docta spes”, speranza ben fondata, ossia basata su fatti oggettivi e di senso univoco. Tra i dati Istat che riguardano il Sud d’Italia due sono quelli che colpiscono in positivo. Il primo è l’aumento, nel secondo trimestre di quest’anno, del. PIL dello 0,7% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno e dello 0,3 rispetto al trimestre precedente. Il secondo dato è la crescita degli occupati nell’ordine di 180 mila unità, anche se si tratta di un dato inficiato dal fatto che riguarda soprattutto lavoratori di età dai 50 anni in su. Questa è una nota davvero dolente se si considera che dal 2008 ad oggi si sono persi due milioni di posti di lavoro occupati da persone di età inferiore ai 35 anni. Manco a dirsi, la maggioranza dei giovani restati senza lavoro sono meridionali.
Di più: è sempre il succitato documento dell’Istat che ci invita a non enfatizzare la ripresa meridionale, allorché testualmente afferma: “Le aree del Mezzogiorno si caratterizzano per una consolidata condizione di svantaggio legata alle condizioni di salute, alla carenza di servizi, al disagio economico”. Per capirci, basta dire che il reddito dei meridionali è inferiore del 18% a quello dei settentrionali e raggiunge picchi negativi del 30% nelle aree più arretrate dell’entroterra. Inoltre, qui da noi, il numero dei poveri cresce con proporzione geometrica: nel giro di un anno, la povertà assoluta ha fatto un balzo in avanti di 725 mila unità, arrivando a 3 milioni e 72.000, più del 15% della popolazione meridionale, che è di 20 milioni e 900 mila abitanti. A sua volta, la povertà relativa è passata dal 21,4% al 23,5, pari a circa 5 milioni di persone. Insomma, il 40% dei meridionali è povero e la metà dei nostri giovani non ha lavoro. Non molti mesi fa la Svimez ha parlato a ragione di “un Sud a rischio desertificazione umana e industriale, dove si continua ad emigrare (116.000 abitanti nel solo 2013), non fare figli e l’industria continua a soffrire di più”.
Indubbiamente, se facciamo riferimento alle cause più recenti e negativamente incidenti, ci troviamo di fronte alla drammatica quanto prevedibile conseguenza della politica di abbandono e di discriminazione di cui il Mezzogiorno è stato fatto oggetto dai governi berlusconian-leghisti e a cui il centrosinistra ha contrapposto ben poco. Così, la migliore e più giovane società meridionale è uscita soccombente nella impari lotta contro i suoi nemici interni (le varie mafie, un ceto politico mediocre e spesso vampiro, una burocrazia corrotta e infingarda, affaristi vari) ed esterni (gli effetti devastanti della darwinistica competizione del mercato globale, l’integrazione in Eurolandia che antepone il rigore allo sviluppo). In realtà, come insegnano i grandi meridionalisti, l’Italia non cresce e progredisce se il Sud resta indietro. E infatti l’Italia del “miracolo economico” fu quella degli anni sessanta e inizi anni settanta in cui, dopo aver varato la riforma agraria e aver istituito la Cassa per il Mezzogiorno, si procedette a un’ampia industrializzazione del Sud, realizzando una significativa rete di infrastrutture necessarie.
Oggi – finalmente, verrebbe da dire – anche il governo di Matteo Renzi, con il suo Masterplan, si rende conto che al Sud bisogna intervenire presto e con decisione, per porre fine alla storia amara delle “Due Italie”, dove quella meridionale vede sempre più aumentare, sia a livello di cultura materiale che immateriale, il suo gap rispetto al Centro-Nord. Ma – come ha acutamente e incisivamente dimostrato Franco Genzale in un suo articolo tanto documentato quanto argomentato e sostenuto da autentico pathos meridionalistico – quelle del pur decantato programma di Renzi sono per lo più enunciazioni di buone intenzioni, cui non segue una programmazione finanziaria degna del nome. Detto in termini brutali, Renzi ha solo messo insieme tutte le risorse, per lo più rinvianti a fondi europei non spesi o da spendere. Tutto qui o poco più. Ancora una volta, manca un progetto, un’idea che faccia imboccare all’economia meridionale la via decisa, pur se impervia, di un trend che sia fatto di sviluppo, di occupazione, di civiltà, così da unificarla con quella dell’altra parte del Paese. Perché una cosa del genere avvenga, é necessario innanzitutto avviare una riflessione approfondita, pur se non di lunga durata, che impegni il meglio della cultura economica e meridionalistica italiana. Una riflessione che, trovando il suo momento di proposta e di sintesi in un grande convegno per la rinascita del Sud, dovrebbe far perno intorno a due principi fondamentali. Il primo è quello di creare al Sud un apparato della potenza materiale autonomo, che abbia qui da noi il suo cervello, i suoi centri decisionali, le sue fondamentali strutture produttive, le sue articolazioni principali. Se così non sarà, noi meridionali saremo sempre e comunque consegnati alla dipendenza dal Centro-Nord, che tenderà a scaricare innanzitutto sulle nostre povere spalle i prezzi di momenti di crisi o comunque di congiuntura negativa. Il secondo principio deve essere quello che si basa sulle vocazioni dei nostri territori, sulla new economy, specie tecnologica, e sull’intelligenza, la voglia di fare, di creare, di intraprendere, di competere del mondo del lavoro meridionale (donne e giovani diplomati e laureati, imprenditori, tecnici), promuovendo lo sviluppo dal basso, autocentrato, sinergico e collegando virtuosamente competenze, istituzioni e territori.
In breve è un Sud autonomo, progredito, civile, che coopera alla pari con il Centro e con il Nord il nostro “sogno di una cosa” al quale non sappiamo rinunziare. Ma perché questo “miracolo meridionale” avvenga è necessario affrontare e vincere – come Genzale raccomanda con nettezza di accenti – la madre di tutte la battaglie: il rinnovamento e l’elevazione della qualità morale, intellettuale, culturale e amministrativa della nostra classe dirigente, debellando nel contempo le varie mafie, l’affarismo e la loro pervasiva collusione con il mondo politico. Un mondo nel quale sono ancora troppi, un esercito, i malfattori di vario genere e rango, i rastrellatori del denaro pubblico, i bricconi inveterati, i professionisti del furto con destrezza a capo di un suburbio di ladroni. Abbiamo bisogno innanzitutto di un Partito Democratico che sia composto di quei “liberi e forti” ai quali si rivolgeva Sturzo. Certo, nessuno si sogna di evocare, con Dorso, “cento uomini di acciaio”, ma un po’ di decenza morale e di senso del bene pubblico non guasterebbero. Abbiamo bisogno, gramsciamente parlando, di una classe dirigente, espressiva di un grande rinnovamento morale e politico. Solo così, senza tema di sprechi e ruberie, si può mettere mano, da subito, a quei progetti infrastrutturali, industriali, agro-industriali e di tecnologia avanzata, di cui v’è stringente necessità. Ma, a tal proposito, precisiamo che i grandi investimenti possono essere gestiti onestamente e proficuamente solo da un soggetto che veda insieme Stato e Regioni e abbia alla sua testa persone di intemerata moralità e di grande capacità, nominate dal governo centrale.
Detto altrimenti e usando una metafora di Michel Serres, a me cara, dobbiamo far sì che sprigioni la luce e la sua forza quel “sole nero” di sogni e progetti, di tensioni e idee, di controstoria e utopia, di rivolta e rivoluzione, che descrive e attraversa il paesaggio e il tempo dell’anima dei meridionali, un punto invisibile del solstizio della loro vita e un loro proprio modo di essere, di quanto è più tipico della civiltà e della storia che hanno costruito. facendo proprie le ragioni e le speranze dei giovani e delle donne, dei poveri e degli esclusi, del popolo che lavora.